Maccagno Inferiore: un feudo per l’imperatore
Maccagno è paese distinto in due località dal corso del fiume Giona e da un leggero dislivello che ne ha contraddistinto il nome: Superiore, a nord del fiume, allo sbocco della Val Veddasca; Inferiore, a sud, attorno ad un golfo riparato.
Questa separazione geografica ha favorito nei secoli destini diversi. Sino al sec. XIII le due località dipendevano, anche nello spirituale, da Cannobio. In seguito Maccagno Sup. finì nell'orbita politica e amministrativa di Milano (dal sec. XVII fu inclusa nel feudo delle Quattro Valli, con capoluogo Luino, e passò sotto diverse famiglie).
Forse per la posizione defilata, invece, la curticola di Maccagno Inf. divenne oggetto d'interesse da parte della potente famiglia Mandelli: nel 1210 c., non riuscendo ad imporre una propria signoria su Cannobio, i Mandelli ottennero il feudo di Maccagno Inferiore da Ottone IV, imperatore del Sacro Romano Impero, che ancora vantava la dipendenza di alcuni territori (le 'corti regie') attorno al Verbano, eredità della frantumazione dell'impero carolingio. Il borgo divenne corte regale, «terra per sé» con rapporto privilegiato con l'imperatore mediato esclusivamente dal feudatario e dal vicario imperiale in Italia: un vero e proprio stato autonomo all'interno dei domini circostanti.
Guadagnò, grazie a questa prerogativa che condivise con poche località della Lombardia (Campione d'Italia, ad es., fatto che spiega l'esistenza di quell'énclave italiana in territorio svizzero), relativa pace, peculiari condizioni d'autonomia fiscale, giurisdizionale ed amministrativa, un mercato (concesso da Carlo V nel 1536) e il diritto a batter moneta in apposita zecca.
Tale eccezionalità amministrativa durò sino al 1796-97 (dal sec. XVI ai Mandelli subentrarono i Borromeo), quando il generale Bonaparte sentenziò: «Non c'è alcun dubbio», Maccagno Inf. andava riunita alla Repubblica Cisalpina. Dopo quasi seicento anni, Maccagno imperiale rientrava così nel perimetro geografico dell'Italia e nei destini della sua storia. Dopo l'Unità d'Italia finì nell'orbita amministrativa di Maccagno Superiore.
Storia urbana
L'abitato si è formato per l'intersezione, nella baia a lago, tra i percorsi provenienti dai monti (da Curiglia e Agra) e quelli, a mezza costa, diretti verso i centri sulla riva, a nord (Maccagno Sup.) e a sud (Luino).
Difficile immaginare l'agglomerato prima della costruzione di palazzo Mandelli (forse alla fine del '200), quando fu promossa una sostanziale riorganizzazione urbana. S'immagina un probabile nucleo 'spontaneo' a monte di piazza Roma, nelle stradine attorno a via Frappolli che, nell'irregolarità del tracciato, manterrebbero l'eco di più antichi andamenti. L'ubicazione decentrata della chiesa di S. Stefano , invece, indurrebbe a figurare in quei terreni pianeggianti l'organizzazione agricola della cuticola attestata prima dell'arrivo dei Mandelli. Oltre il 'voltone' di casa Devasini , via Mameli e la parallela via Della Bella s'offrono, invece, come esito di più precisi indirizzi di pianificazione urbana. L'innesto del castello, sul fianco del monte e in posizione strategica, avrebbe infatti imposto un collegamento diretto tra chiesa e fortilizio (via Della Bella), quindi promosso lo sviluppo di un reticolo attestato sulla sottostante via Mameli. Tra le due arterie, e altri percorsi minori non compiutamente sviluppati, si riconoscono ancora le dimensioni di isolati regolari d'origine medievale, con case serrate in schiera, alcune sviluppate a torre (ma mascherate in aggregazioni successive) o aperte in ridotte corti . Il tessuto medievale è scandito da scalette trasversali ancora percorribili e ricche di fascino. A partire dai secc. XVI-XVII via Mameli fu prescelta come asse civile del paese, con eleganti costruzioni dalle pretese signorili, distribuite sul lato meridionale e con giardini 'all'italiana' alle spalle, aperti verso il lago. Scomparsi i pergolati che ombreggiavano i camminamenti, le facciate offrono ancora apparati decorativi, meridiane e immagini votive. Il castello, forse più esteso dell'attuale, fu un vincolo alla creazione di slarghi e piazzette, peraltro rari in una situazione urbanistica già di marca alpina. Sopperirono gli 'avamporta' delle abitazioni signorili (con panche e i primi selciati), fontane e lavatoi, ma anche scale 'a profferlo', a sbalzo sulla via, come luoghi di improvvisata socialità.
Un castello, una leggenda
Dal palazzo fortificato che ancora domina il borgo, i Mandelli difesero tenacemente l'eccezionalità amministrativa del feudo imperiale di Maccagno Inferiore, più volte minacciata per le mire di Milano o per la vacanza legata a problemi di successione.
Gli abitanti del borgo, dal canto loro, come sudditi del Sacro Romano Impero, godevano di ampi vantaggi, dall'esenzione da ogni balzello imposto dai vari conquistatori della Lombardia a forme di amministrazione autonoma della giustizia.
Di contro, questa sorta di isola extraterritoriale attirava «sfrosatori (sale, tabacco, legna e grano) delli Tre Stati vicini» (Regno di Sardegna, sulla riva piemontese del lago, dal 1744; Canton Ticino; ducato milanese), manigoldi dai conti in sospeso con la giustizia o «milanesi [che] per speculazioni de' loro commerci vi ànno stabilito i loro empori ».
Tali privilegi resero urgenti nei secoli politiche per salvaguardare autonomia e benefici acquisiti. Se, ad esempio, con apposita norma degli statuti comunali (dal 1433), i maccagnesi tentarono di vietare agli "stranieri", attirati dalle franchigie fiscali o dalla possibilità di stabilire nel borgo un porto franco per commerci illeciti, d'avere possedimenti stabili, i feudatari ricorsero persino ad una leggenda.
Già dal '500 s'iniziò quindi a favoleggiare che nell'862 l'imperatore Ottone I, di ritorno dalla vittoriosa campagna contro il re d'Italia, Berengario II, fosse stato salvato dai maccagnesi da una tempesta sul lago e che, per riconoscenza, avesse conferito il blasonato titolo imperiale.
Per accreditare la vicenda i Mandelli assoldarono abili falsari per produrre presunti diplomi grazie ai quali l'origine della concessione, retrocessa di oltre due secoli, e collegata ad una data cruciale, quella in cui Ottone I fu incoronato a Roma re d'Italia, assumeva crediti tali da garantirne l'inviolabilità.
Oggi gli storici hanno smascherato le contraffazioni e stabilito agli inizi del sec. XIII l'origine del feudo; ma la leggenda anima ancora una cerimonia folcloristica con rievocazione dello sbarco dell'imperatore sulla riva del lago.
L'abitato antico era disposto da monte a valle, lungo la direzione che è ancora impressa dalla scalinata Casati. Questo andamento era in prosecuzione della mulattiera proveniente dalla Val Veddasca, dove, forse almeno dall'epoca romana, i paesi a mezza costa disegnavano una mappa di insediamenti sulla via tra Bellinzona e il Varesotto (sono, oggi, le frazioni a monte).
Nei secoli, innesti urbani seguirono a mutate condizioni economiche e sociali. Se, infatti, sulla scalinata è riconoscibile un tessuto edilizio medievale e seriale, che attesta l'antichità della vocazione mercantile del borgo , gli eleganti casamenti in via Cuccuini documentano il grado di agiatezza raggiunta dal sec. XVI grazie ad un più consapevole sfruttamento delle risorse del territorio. L'installazione di magli, mulini e segherie, alimentati con canali derivati dal fiume Giona, impose dapprima un prolungamento urbano in direzione di quegli opifici, dislocati a valle dell'attuale stazione ferroviaria (nei pressi è la via 'delle rèseghe'), confermando l'andamento medievale e condizionando l'orientamento della nuova parrocchiale, in costruzione nel '500 . Il fiorire di commerci e la creazione di porti sulla riva (settecentesca gabella del sale, vedi cartello 5) determinarono, a lungo andare, il prevalere della trasversale di via Cuccuini, aperta proprio in direzione di quei fondachi, centro di vita associata sino a quando l'inaugurazione della ferrovia (1882) e la strada statale imposero piazza Vittorio Veneto, con palazzine borghesi, ville (Pellerani-Clerici è sede municipale) e alberghi (Maccagno e Italia) quale teatro di moderne ritualità. Dalla fine dell'800 si diluirono, quindi, antiche forme di socialità e di lavoro: progressivamente abbandonati i terrazzamenti per l'agricoltura che conferivano alla montagna il volto di una grandiosa scalinata (i vitigni erano ancora «floridissimi» nel 1901; gli olivi erano documentati già nel sec. XVI); la provinciale per la Veddasca (1917) soppiantò la mulattiera dove scolorirono gli affreschi della via crucis (1746) davanti alla quale s'erano svolte spontanee litanie in appoggio alle grandiose feste collettive per la processione dell'Addolorata (statua lignea nella parrocchiale).
Per la distanza dei centri abitati dal lago (soprattutto il nucleo antico di Maccagno Superiore) e per l'ampiezza della foce del fiume Giona, che non ha consentito la conversione completa della costa in ville e giardini a partire dalla fine dell'800,
Maccagno mostra ancora testimonianze evidenti della destinazione prevalentemente mercantile e commerciale che, un tempo, distingueva l'utilizzo della riva nei borghi lacustri. Almeno dalla metà del '500, infatti, magli, mulini e segherie iniziarono a sfruttare la felice combinazione offerta dal lago, come veicolo di traffici e commerci, e dal fiume, da cui furono derivati i canali per l'energia idraulica necessaria agli stabilimenti. Dalla metà del '700 la fissazione a Maccagno della gabella del sale confermò l'ascesa mercantile del borgo. Nel corso del sec. XIX le più antiche forme di imprenditoria protoindustriale trasmutarono in imprese industriali che, grazie all'innesto di capitale straniero o ambrosiano, alimentarono le sorti progressive del borgo, ma, poiché dislocate sulla riva del lago (in continuità o per conversione degli opifici cinquecenteschi), prolungarono la vocazione "produttiva" del litorale fino ai nostri giorni. Soltanto dal Secondo Dopoguerra la crescita edilizia, che ha saldato con un reticolo di villette e giardini i due agglomerati storici, ha imposto la necessità di pensare ad un baricentro per ospitare nuove funzioni ludiche e culturali in risposta alla crescente vocazione turistica di Maccagno. La creazione del museo-ponte, simbolicamente gettato sopra il fiume, quasi per riannodare visivamente i destini a lungo separati di Maccagno Inferiore e Superiore, ha innescato un processo di riqualificazione delle sponde del lago (lungolago; porti turistici; auditorium) e del Giona (Parco delle Feste; polo sportivo) ancora in corso.
Sono le tracce evidenti della sua storia, la singolarità della divisione tra Maccagno Inferiore e Maccagno Superiore, e, non da ultimo, la posizione geografica, che invitano a Maccagno; un invito a sostare sul nuovo lungolago che subito si muta in un’intrigante esigenza a sapere di più d’una storia che ha diffuso nel paesaggio i segni e i simboli della propria peculiarità.
Eccezion fatta per il meno noto e blasonato Due Cossani, Maccagno è l’unico tra i paesi sulla costa del lago Maggiore ad essere diviso in due località distinte, Inferiore e Superiore; una distinzione imposta dalla giacitura dei due borghi sull’ampia foce del Giona il cui corso le separa e dal leggero dislivello che ne ha contraddistinto il nome: l’una, a Nord del fiume, quasi aggrappata alle pendici della Valle Veddasca di cui ha sempre costituito il naturale sbocco; l’altra, a Sud, si dispiega a corona attorno ad un golfo riparato dai venti, quasi porto naturale.
Una separazione geografica che ha favorito destini diversi: Maccagno Inferiore fu per secoli feudo di derivazione imperiale forse almeno dagli inizi del Duecento. Fu quindi, fino alle soglie dell’Ottocento, Maccagno Inferiore feudo imperiale corte regale terra per sé sotto il dominatus della famiglia Mandelli che, dall’alto del castello che ancora sovrasta il borgo antico, ne difesero tenacemente l’eccezionalità amministrativa; il feudo fu poi ceduto ai Borromeo. Maccagno Superiore seguì invece i destini del territorio del Luinese: inclusa nella squadra di mezzo del ‘feudo delle Quattro Valli’ che faceva capo a Luino, passò sotto diverse famiglie fino alle più stabili e durature presenze della famiglia Marliani (dal 1583 al 1773) e della famiglia Crivelli, che detenne il feudo luinese dal 1773 fino alla progressiva dissoluzione delle prerogative feudali nelle moderne strutture statali, regie o repubblicane che fossero.
Una storia singolare che ha trovato, nei secoli, diversi narratori originari del luogo, anche in questo avamposto nella storia del Verbano: da Domenico Della Bella che intorno al 1490 diede alle stampe in Milano la prima corografia del Verbano, composta a Maccagno, sede di villeggiatura già piacevole allora, località da cui originava il ceppo familiare e da cui traeva il popolare soprannome di Macaneo; a Leopoldo Giampaolo, fautore della rinascita della Società Storica Varesina, che per primo diede sistematica visione alla complessità degli avvenimenti che si sono succeduti nel paese natale; a Camilla Valsecchi che da Maccagno guidò la riscoperta di una tra le principali Historie del Verbano, l’Historia della nobiltà et degne qualità del Lago Maggiore edita nel 1603 a Milano da fra Paolo Morigia, non stancandosi mai di scavare anche nel recente passato. Ma già nell’Ottocento chi coronò la diroccata torre imperiale che sorgeva e sorge a dominio di Maccagno Inferiore con un giro merlato un po’ troppo d’invenzione intese mostrare e spigare che quello era il simbolo del prolungarsi nel tempo di un prestigio acquisito grazie all’intervento diretto dell’Imperatore; intese, a suo modo, “scrivere la storia” di Maccagno.
Ancora oggi noi siamo invitati da quei segni a sapere di più compulsando dettagliati resoconti, notizie maggiormente diffuse, nuovi recuperi documentali, o bussando per una rilettura a quelli già nei tempi studiati, o sondando le antiche mura di ville, chiese e contrade; un approfondimento che è necessario di fronte a tanta singolarità e a tante testimonianze ancora presenti che – come sempre quando c’è di mezzo una torre o un castello – alimentano leggende.... Ci sono voluti quasi quattro secoli, infatti, per sfatare la diceria abilmente messa in circolazione dalla famiglia Mandelli e rilanciata dal povero Morigia, agli albori del XVII secolo: la quale gabellava del come e del quando la famiglia avesse ottenuto l’investitura del feudo di Maccagno Inferiore direttamente dalle mani di Ottone I, quindi intorno al 962; investitura sostenuta grazie ad abili falsari pronti a produrre ad hoc privilegi imperiali, ‘smascherati’ da Pierangelo Frigerio e Pier Giacomo Pisoni nel documentato commento alla prima riedizione proprio di quel Morigia che per primo ne aveva accettata acriticamente la veridicità. Ma il falso fece in fretta a metter nido nel generoso seno della leggenda popolare; e acquistò forza e vigore e perfino spessore urbanistico, grazie ad una campagna restauri otto-novecentesca sempre ingenuamente propensa ad esplicitare i simboli di una ‘grande storia’, coronando le torri, le mura e le case di merli e di aquile imperiali.
E dunque poniamo al bando le comitali ‘patacche’ e vediamo piuttosto invece quel che di vera storia i veri storici hanno diplomato.
Maccagno Inferiore fu parte di quella costellazione di corti regie sparse alla fine del primo millennio nel bacino settentrionale del Verbano; tra queste quella di Cannobio che è facile pensare estendesse la dipendenza fiscale ai territori sottoposti alla sua pieve, quindi anche alla sponda fronteggiante di Maccagno. A partire dal IX secolo si assistette ad una progressiva frantumazione della corte cannobiese passata, con lungo susseguirsi di concessioni, al monastero di S. Pietro in Breme Lomellina e, per altra parte, all’abate e monaci del chiostro di Ss. Felino e Gratiniano in Arona. Proprio forse tramite l’infeudazione dei beni ecclesistici fecero la comparsa sulla scena politica del futuro comune rustico di Cannobio i de Mandello, per vero già dalla fine del XII secolo investiti di funzioni e dignità pubbliche. Mancava tuttavia loro la possibilità di imporre un dominio di tipo signorile: nonostante la subinfeudazione dei beni che furono del monastero di Breme, nel 1209, alla famiglia non riuscì mai di conseguire la supremazia sulle altre famiglie cannobiesi che, nel generale vuoto di poteri centrali, si erano nel frattempo conquistate indipendenza economica e politica.
Maccagno, rimasta di pertinenza regia (fors’anche perché territorio poco desiderato nelle lotte per la conquista del Verbano), fu quindi all’inizio una soluzione ‘di ripiego’ per i Mandelli. Ne ottennero la concessione imperiale intorno al 1210 da Ottone IV, peraltro in quel periodo particolarmente incline a largheggiare coi Mandelli in feudi e privilegi, al fine di sancire il definitivo passaggio della famiglia da posizioni anti-imperiali (sostenute ai tempi di Federico I) al più ortodosso partito dell’imperatore; al quale del resto conveniva sempre mantenere il controllo sulla regione dei laghi, secolare ‘passaggio obbligato’ dalla pianura alle Alpi.
Di contro, i Mandelli ricavarono dal piccolo feudo forme di prestigio che col tempo era necessario rafforzare: sia per primeggiare nel collegio dei Giureconsulti di Milano, sia per difendere il feudo dalle continue mire di Milano, ma non solo. Nel 1679 il barone viennese Giovanni Walderode si aggiudicava l’asta per la devoluzione del feudo, morto senza eredi l’ultimo Mandelli, Giovanni: il possesso fu faticosamente trattenuto nelle mani della famiglia Mandelli, pur passando ad altro ramo della stirpe. In questo ambito si inserisce la confezione dei falsi privilegi: reiterata necessità imposta dal dover combattere una guerra difensiva senz’armi appropriate.
E vediamo infine quel che poteva dire il popolo suddito circa il proprio signore. Maccagno Inferiore spartì con la famiglia Manelli oltre quattro secoli della propria esistenza; condivise con Limonta e Campione, Vescovado, Gazoldo e Civenna una singolarità amministrativa in terra lombarda che poté resistere al tumultuoso scorrere degli eventi. Maccagno guadagnò, grazie ai Mandelli, una relativa pace e, soprattutto, esenzioni dai dazi e gabelle milanesi, un mercato concesso direttamente dall’imperatore Carlo V (con diploma dato a Genova nel novembre 1536), e il diritto di conio imperialmente accordato a partire dal terzo decennio del Seicento.
Nel 1692 Maccagno Inferiore fu ceduta alla famiglia Borromeo; ma in capo ad un secolo e poco più nessuno della nobile casata e nulla poté di fronte al sorgente astro napoleonico che, travolgendo secolari istituzioni e interi stati, non esitò di fronte al piccolo e pur ‘glorioso’ feudo imperiale: il Bonaparte decretò senza “auçun doute” l’annessione al territorio della Cisalpina, e tanto bastò.
Fu la fine: con l’eccezione della parentesi 1798-99 il feudo non fu più ricostituito. Senza colpi di mano e spargimento di sangue, ma solo con un colpo di penna e … spargimenti d’inchiostro, finì un privilegio che oramai non poteva più sussistere di fronte all’imporsi tenace e ineluttabile dello stato moderno: nessuno avrebbe rivendicato oltre il feudo. Così Maccagno Imperiale finì, dopo l’Unità, nell’orbita amministrativa di Maccagno Superiore, prescelta come sede comunale anche in virtù di un territorio geopolitico da sempre geograficamente più vasto.
moneteNel XVII secolo Maccagno Inferiore diventa l’unico paese del Lago ad ospitare un’officina monetaria. L’imperatore Ferdinando II d’Asburgo concedeva il 16 luglio 1622 ai Mandelli il diritto di coniare una moneta bona, iusta, proba et sincera, nel rispetto di quelle che circolavano all’epoca dei territori del Sacro Romano Impero. L’ordine imperiale fu rispettato solo in minima parte. Il privilegio di zecca rappresentava una ghiotta occasione per i feudatari di Maccagno di produrre esemplari contraffatti, con un contenuto di metallo prezioso un po’ al di sotto di quello di altri esemplari, permettendo allo zecchiere ed ai Mandelli di intascarsi la differenza. I conii delle monete maccagnesi erano poi realizzate ad arte, imitando molto fedelmente quelli di altri esemplari di mezza Europa e confondendosi con essi sulle piazze commerciali internazionali.
Maccagno non era la sola a cimentarsi in questa illecita iniziativa. La produzione delle contraffazioni costituiva nel XVII secolo una consuetudine molto praticata dai piccoli feudi locali. In questa attività Maccagno era in concorrenza con altre zecche, soprattutto del Piemonte e dell’area emiliana-mantovana: i nomi di Desana, Masserano, Guastalla, Castiglione delle Stiviere e di molte altre officine ricorrono frequentemente per tutto il secolo sui provvedimenti di bando di quegli Stati che finivano per essere invasi dalle loro monete.
Si trattava di un’industria in piena regola che sfruttava un momento di difficoltà dell’economia europea. Maccagno diede in questo un contributo rilevante: le sue monete circolarono a Milano come in Svizzera, arrivando fino ai mercati tedeschi ed olandesi.
L’attività della zecca segnò una pagina importante della storia di Maccagno fino alla morte del conte Giovanni Francesco Maria Mandelli (1668). Da lì in avanti, le difficoltà nella successione del feudo ed il risveglio dell’economia internazionale crearono insormontabili complicazioni che impedirono alla zecca di continuare la sua produzione. Le monete di Maccagno vennero pian piano ritirate dalla circolazione, per recuperarne il metallo. Gli esemplari che oggi sopravvivono sono testimonianze indirette di un’attività rilevante di questa piccola officina, che da un angolo di lago per quasi cinquant’anni causò non pochi problemi alle economie dei grandi Stati d’Europa.
Lo studio delle zecche, piccole o grandi che siano, getta luce su tanti aspetti della storia: atti giuridici ed evoluzione della tecnologia, organizzazione del lavoro e delle imprese, movimento del personale e degli imprenditori, rapporti tra metalli e svalutazione... Sull’onda di alcuni importanti studi condotti negli ultimi anni è stato possibile individuare una serie di dati che hanno portato nuovi elementi nella storia dell’antico feudo di Maccagno Inferiore ed in particolare nell’attività della sua zecca. Le ricerche hanno contribuito a definire le ragioni giuridiche ed economiche dell’officina monetaria di Maccagno Inferiore, collocandone con maggiore precisione la produzione in un contesto internazionale segnato da grandi cambiamenti economici. Si mettono dunque in risalto i diversi aspetti della zecca maccagnese alla luce di documenti preziosi, molti dei quali inediti: non solo monete, ma anche elementi ad esse strettamente correlati (dalla circolazione monetaria al valore sulle piazze internazionali, dalle concessioni imperiali agli appalti della zecca, senza trascurare l’edificio dove per circa sessant’anni furono realizzati materialmente tutti gli esemplari). Una zecca che fu uno tra i tanti motivi d’orgoglio della piccola comunità di Maccagno Inferiore, che con la gemella di là del Giona condivideva la felice posizione geografica.
Duplice è l’affresco tracciato dal Morigia nel 1603 per le due Maccagno; duplice geograficamente, ma già unitario nella sostanza: Maccagno, Inferiore e Superiore, presentava agli occhi del gesuato milanese un panorama incantevole vicino oltremodo ad una sensibilità propensa all’esaltazione del paesaggio come natura naturata, dove la bellezza paesistica non può essere disgiunta dal ruolo centrale dell’uomo nel modellare il paesaggio in giardini, e a tramutarne le occasioni offerte dal territorio in lavoro e ricchezza [è un quadro cinquecentesco: paesaggio come ‘giardino dell’uomo’]. Si lasci dunque parlare il gesuato Paolo: il quale così dice di Maccagno Inferiore. «[…] Oltre che questa terra à alle sue spalle i colli poco erti e assai piacevoli, e ameni, è dotata da saporitissimi frutti, olive, anco naranzi, limoni, cedri, oltre diverse e limpide fonti. Gode per particolar dote aria saluberrima, perché elle resta difesa fra levante e tramontana dalli suddetti colli, s’estende in detto promontorio verso meriggio, la qual parte possiede la vista della maggior latitudine d’esso lago e verso ponente seguendo la larghezza del lago, con ammirata veduta gode la delitiosa riva opposta e la quantità delle terre che vi sono copiosissime d’abitatori. Verso poi tramontana ella ha un fiume nomato Giona il quale non solo inonda e piacevolmente irriga quella parte di pianura che vi resta, dando comoda pastura a onesta copia d’armenti, ma ancora insieme cadendo porge violento motto a machine de molini e riseghe di legnami, al fine del quale termina con le rive in una spaziosa pianura qual parte con dilettevole veduta si scopre il rimanente del lago verso Locarno per lungo tratto. Questo ha una resega, tre molini, una fornace da calce lungo il Giona».
Non meno generoso il Morigia è su Maccagno Superiore: «[…] Et ha le medesime proprietà e nobiltà che ha Maccagno di sotto: intend’io quanto alla bontà dell’aria. In questo Maccagno vi abitano i Crena mercanti, i quali con la loro industria e spesa sono stati inventori di far fabbricare sopra nominato fiume cinque riseghe e cinque molini, edifici bellissimi, degni d’esser veduti. Essendo che nell’edificio delle riseghe, le istesse borre che si resegono in asse, vanno da se stesse con artificio sotto la resega, senza opera de homini, cosa bella da vedere. Questi Crena degni di lode fabbricato quivi casamenti comodissimi con apartamenti signorili, dove alloggiano molto civilmente e nobilmente oltre che quivi si vede un vago e delitioso giardino, tutto murato d’ogni intorno, che passa cento pertiche, con piante di naranzi, limoni cedri e altre varietà de rari frutti […]» Nel delitioso giardino fervono dunque le attività dell’industre popolazione: almeno così lascia intendere il Morigia.
Ma ahinoi, il Morigia troppo inclina alla moda del tempo: l’idilliaco quadro tracciato dal gesuato suona più come una genuina trasfigurazione ‘mitologica’, quasi affresco rinascimentale di ariose proporzioni e soavità di luci. Sappiamo, invece, di una cultura materiale ben diversa e di un’economia dove le ‘industrie’ locali (oltre riseghe e molini, anche prime manifatture con produzione di chiodi e poi, curiosamente, di carte da gioco) rimanevano episodi isolati e il commercio pativa della progressiva soppressione del mercato a scapito di centri più importanti, Luino in testa. La terra dava i maggiori frutti, tanto che Maccagno Superiore vantò, nella prima metà del Settecento, secondo i rilevamenti del catasto ‘Teresiano’, la più alta rendita per pertica dei terreni di tutta la Valtravaglia, grazie alla coltivazione viticola che si avvantaggiava della posizione solatia delle pendici della Veddasca. I ripidi terrazzamenti necessari per strappare i terreni alla montagna segnarono profondamente il panorama delle valli affacciate sul lago con caratteristiche gradinate su cui crescevano sporadici ulivi, molti vitigni, gelsi, alberi da frutto, noci. Le castagne rimanevano il cuore principale della cultura alimentare, non di rado ‘esporate’ fino a Milano; il lago era la strada dei commerci, meno della pesca. Il Giona non era navigabile, ma quantomeno favorì il commercio della legna, segata nel cuore della valle e trasportata a lago, dove prendeva la strada di Milano e Pavia, consentiva abbondante irrigazione dei campi ricavati sull’ampia foce, permetteva numerose derivazioni per alimentare magli, mulini e ‘reseghe’.
Tutto questo però non bastava: fu necessario, nei secoli, emigrare soprattutto dai più isolati borghi della Valle Veddasca; e fu necessario inventarsi una professione: il muratore. Come buona parte del bacino prealpino, la Valtravaglia ha fornito un’incalcolabile fiumana di maestranze: capimastri, semplici muratori, scalpellini, marmorini, falegnami, stuccatori… Dalla forza della tradizione di anonime dinastie emergeva sovente la figura di talento. La Valle Veddasca sembra costituire il serbatoio più importante di ‘maestri da muro’ nostrani; e Maccagno vanta i natali di uno dei maggiori architetti neoclassici italiani: Ferdinando Ausano Caronesi. Nacque nel 1794 da un capomastro, Giovanni, nipote di un capomastro, Antonio Bolognini, cugino di muratori, Ferdinando e Andrea… tutti originari di Veddo. Tralasciando una carriera costellata di riconoscimenti avallati anche dalla recente fioritura critica sulla sua figura, tralasciando le opere in Torino e in Piemonte, del Nostro si annoverano anche lavori nella terra natale; perché gli emigranti tornavano, generalmente nei mesi invernali per la sospensione dei cantieri presso cui erano impegnati, ridistribuendo la fortuna accumulata altrove, contribuendo alla crescita della comunità, con numerosi lasciti per ‘scuole’, chiese, opere pubbliche, condividendo un patrimonio culturale acquisito nel cuore pulsante di città lontane, dirigendo e collaborando ai cantieri locali: le chiese. Così fece quel Gaspare Catenazzi da Lozzo, approvando agli albori del Settecento il progetto per la ricostruzione della parrocchiale di Maccagno Superiore approntato da Michele Boschetti: il primo fu poi impegnato alla risoluzione del secolare problema del tiburio del Duomo di Pavia; del secondo si annoverano progetti per parrocchiali del Canton Ticino. Così fece nel 1839 anche Ferdinando Caronesi fornendo gratuitamente il disegno per l’altare di S. Nicola da Tolentino nello stesso S. Materno; così fecero altri ancora anonimi contribuendo con donazioni o col proprio lavoro. Le chiese di Maccagno custodiscono un duplice patrimonio: d’arte e di vita.
Maccagno non seguì l’incalzante processo di industrializzazione che caratterizzò il territorio della Valtravaglia, con Luino e Germignaga a guidare una modernizzazione oramai alle porte.
Penalizzata dall’assenza di un collegamento adeguato con Luino e la Svizzera (la strada Luino-Maccagno-Confine non fu ultimata che nel 1914) e costretta in un territorio i cui pochi terreni pianeggianti erano destinati all’agricoltura e alle prime grandi ville, Maccagno non fu in grado di attirare capitale straniero in grado di attivare una crescita industriale di ampio respiro; con dovute eccezioni.
La ferrovia del Gottardo (1882) giunse al momento opportuno, sostenendo uno sviluppo turistico i cui albori risalgono a qualche decennio prima. Numerose ville, alcune di elegante impianto, incorniciarono di scuri parchi i due borghi antichi, privilegiando particolarmente Maccagno Inferiore: i villeggianti erano prevalentemente milanesi; molti avevano origini locali o avevano intrecciato i loro destini con emigranti maccagnesi. Tra il 1894 e il 1895 amò soggiornare in questi “luoghi così belli e sereni” Ada Negri che predilesse particolarmente la passeggiata all’oratorio settecentesco di Bruganten, in Veddo dove aveva dimora, alla ricerca dei silenzi del suo ombroso sagrato.
Non mancò un sapore da belle époque: nei non certo lussuosi alberghi si infittirono decori liberty che campeggiarono nelle sale ristoranti e nei saloni destinati alla musica (nel 1912 il Caffè Ristorante Italia con sala per la locale filodrammatica); qualche albergo e qualche casa sfoggiò frontoni curvilinei e si impreziosì di teste muliebri e fiori in cemento. Qualcuno pensò ad estendere le sorti favorevoli del turismo in crescita anche alle montagne costruendo alberghetti e ristoranti e ipotizzando faraonici collegamenti con moderne funicolari. Fallì, l’impresa: la Veddasca conservò incontaminata le caratteristiche originarie che oggi, grazie al sapiente rilancio di prodotti locali, costituiscono risorse preziose per un turismo che ha radicalmente mutato le proprie esigenze.
Protagonista indiscussa della stagione delle villeggiature maccagnesi fu la marchesa Camilla Margherita di Montesquieu Trombetti; di misteriose origini – forse di illegittima ascendenza reale – si stabilì da fine ‘800 in una villa sul promontorio di Ronco Scigolino, a nord del paese. E ivi coltivò le lettere: dopo studi etnografici di qualche pregio, si dedicò, tra l’invenzione e la stravaganza, alla raccolta di leggende locali, favoleggiò di un medievale convento di benedettine sul luogo della sua villa, ospizio per illustri pellegrini tra cui, nientemeno, che un re di Danimarca, viaggiò alla scoperta del lago con la sua barca, quando ancora il diportismo era un sollazzo per pochi. Il taglio romantico dato alle sue imprese non toglie alla dama il merito di non essersi accontentata di piacevoli soggiorni in riva al lago, ma di aver iniziato un cammino di conoscenza dei luoghi che la ospitavano cui ella contribuì da un lato a dare voce e dall’altro ad arricchire di colorito sapore con la sua misteriosa presenza: si narra che nella sua villa soggiornasse spesso, in segreta fuga d’amore il re del Belgio.
Il tessuto dei grandi parchi delle ville si frantumò nel secondo Dopoguerra in microscopici lotti su cui villeggianti stranieri costruirono le loro piccole villette; fu questo indistinto tessuto edilizio che saldò fisicamente Maccagno Superiore e Maccagno Inferiore. Con ottica lungimirante si è invece provveduto in anni recenti a costruire una passeggiata a lago continua sul perimetro della foce del Giona e un museo-ponte proteso sulle acque del Giona a saldare Maccagno Inferiore e Superiore in un’unica vocazione di polo culturale: lungo il lago Maccagno offre al turista e a noi un rapporto stretto colle acque che molti altri paesi della sponda lombarda ancora negano; lungo il Giona il nuovo museo-ponte Parisi-Valle offre un ambiente museale di primo livello in una struttura architettonica coraggiosa con cui l’architetto Maurizio Sacripanti vinse nel 1990 il premio “In/Arch”.
Un ponte di cultura, un ponte tra culture, che riunisce e rispetta l’individualità di due villaggi, nello stesso modo in cui Maccagno, già imperiale e reale, ora Inferiore e Superiore, custodisce un duplice patrimonio di genti e di storia.
[da: Invito a Maccagno, di Federico Crimi]